Après la fin. Cartes pour un autre avenir.
A cura di Manuel Borja-Villel - Centre Pompidou-Metz
21 gennaio-1 settembre 2025
Maria Teresa Annarumma

Scrivo questa recensione mentre mi trovo a New York e lo scenario artistico della grande mela (intendo quello promosso dalle gallerie private come dalle istituzioni) è di quelli che cercano di seguire “la sensibilità corrente”: mostre di artisti del sud est asiatico, giapponesi, caraibici, africani o sudamericani. Poche tracce di artisti statunitensi o dell’Europa occidentale.
Questo dato, ma anche la situazione politica corrente, rende quanto mai attuale la mostra “Après la fin. Cartes pour un autre avenir”, a cura di Manuel Borja-Villel, presso il Pompidou-Metz e per evidenziarlo, citeremo lo stesso curatore che, all’interno del catalogo della mostra, afferma: “Il decoloniale è, in questo senso, diventato la moda, una nuova forma di appropriazione ed estrattivismo. Opere e pratiche artistiche si trasformano in merce e, come tali, vengono svuotati del loro contenuto, perché devono essere infinitamente intercambiabili.”1
Per contestualizzare questa affermazione dobbiamo ricordare, non solo il contesto internazionale che negli ultimi venti anni ha creato una nuova sensibilità riguardo la rappresentazione e la lettura storica dell’eredità post coloniale, ma anche quanto questa attenzione sia stata assorbita e digerita dalle dinamiche portanti della società del consumo: infatti, il desiderio costante di novità, motore del consumismo, ha trovato nuova soddisfazione da questo ingresso di molti artisti, a lungo ignorati che, con una estetica spesso lontana da quella comunemente accettata, ha dato nuovo brio al mercato dell’arte. A ciò va ricordato che anche le due maggiori biennali d’arte al mondo hanno affrontato, in maniera profondamente opposta, il post colonialismo e quello che si definisce genericamente il “sud del mondo”: la Biennale di San Poalo 2023 “Coreografie dell’impossibile” a cura dello stesso Borja-Villel, Diane Lima, Grada Kilomba e Hélio Menesez e l’ultima Biennale di Venezia a cura del brasiliano Adriano Pedrosa, dal titolo “ Stranieri Ovunque” (2024): infatti, se l’edizione della biennale italiana ha seguito un concetto basico secondo il quale ogni paese ha avuto migranti sparsi nel mondo e ciascuna nazionalità ha vissuto nella storia questo tipo di condizione, quella di San Paolo si pone invece come antecedente ad “Apres la fin” e guarda agli stessi paesi accumunandoli seguendo, non una logica geografica, ma una di senso, con significati specifici che, nell’intenzione del curatore, possono rappresentare un ‘alternativa politica e culturale al modello occidentale.
Quando tra gli anni tra la fine degli ’70 e l’inizio gli inizi dei ‘90 il sistema capitalistico diffuse la convinzione che il neoliberalismo fosse una scelta obbligata, le teorie di Francis Fukuyama, leggendo la storia in maniera lineare e direzionale, parlavano di “fine della storia” proprio in coincidenza caduta del muro di Berlino, come se questo evento dovesse affermare la definitiva vittoria del modello neoliberista.
Gli ultimi 30 anni, passando dall’11 settembre fino ad arrivare alla recente pandemia, hanno ribaltato questa prospettiva evidenziandone i grossi limiti in termini di giustizia sociale, democrazia ed economia, per cui, come il curatore avanza con il titolo della mostra, è possibile parlare anziché di “fine della storia”, di “Après la fin” (il dopo la fine), allargando lo sguardo a diversi mondi possibili e a una diversa visione di tempo e di società come quelle delle culture millenarie degli indigeni.
Per costruire la linea narrativa della mostra, il curatore si lascia guidare da due autori: Édouard Glissant sulla nozione di relazione e arcipelago e Gloria Anzaldúa su quella di frontiera e appartenenza.
Borja-Villel, rifiutando una percezione unidirezionale e teleologica della storia, pone come suo punto di partenza una diversa interpretazione del tempo: ricordandosi della “Marcia del Silenzio” organizzata dall’esercito zapatista in Messico nel 2012, il giorno in cui che secondo i Maya sarebbe dovuta avvenire la fine del mondo occidentale, vuole interpretare il tempo seguendo la linea a spirale, “da lumaca”, quella che i zapatisti adottarono per la marcia, dove lentezza e ricorsi portano a incontri e sfalsamenti di tempo e di spazio. Lungo questa direttiva, artisti come Wifredo Lam, Rubem Valentim o Belkis Ayón, pur ispirati a forme ed elementi delle religioni africane, così come alle narrazioni vernacolari, adottano un’estetica modernista che fa si che le tradizioni millenarie e ancestrali si confondano e coabitino, in un salto temporale, con i dettami del moderno. In particolare, Belkis Ayon, cubana, mescola l’iconografia Abakuá di origine africana e praticata a Cuba, con quella cristiana, in un’impostazione formale capace di rappresentare questo sfalsamento visivo.
Le registe e performer Maya Deren e Katherine Dunham invece, pur mantenendo una narrazione atemporale e transculturale, toccano un altro tema importante della mostra, quello delle relazioni all’interno delle comunità locali: Glissant in “La poetica della Relazione”2 sostiene che la nostra realtà contemporanea è quella della molteplicità e della diversità per cui solo le relazioni e le loro dinamiche possono spiegare questo totale e continuo cambiamento. Affermando ciò, e basandosi sulle culture caraibiche da cui proveniva, le relazioni sono relegate nello spazio dell’immaginazione, in una dimensione di opacità che deriva dall’accettazione della parte mistica e spirituale della vita e quindi dell’oralità e con essa, della volatilità di pensiero e di emozioni.
In “Meditazione sulla Violenza” (1949), infatti, la Deren non ci presenta una coreografia, ma una relazione tra il soggetto e la macchina da presa, mentre, nell’altro film “Haitan Rushes” (1947-1950) ispirato ai rituali voodoo, crea una relazione intertemporale e formale tra mito (modernista) dell’editing del cinema con quello dei rituali religiosi ancestrali. I film di Katherine Dunham invece, “L’Ag’YA” (1941) e Shango (1947) testimoniano la vitalità coreografica dell'artista: concentrandosi sui movimenti corporali mette in relazione danze della Martinica, Voodoo e Santería, in un richiamo alla vita delle comunità locali intrise di fisicità e di magico.

Copyright : © Adagp, Paris, 2024 © Centre Pompidou-Metz / Photo Marc Domage / Exposition Après la fin / 2025

A questo proposito, avendo descritto una serie di lavori storici, credo sia necessario fare una parentesi che certamente accomuna tutte le mostre che presentano opere del passato, ma che ritengo importante fare in questo caso, perché stiamo descrivendo un progetto che si prefigge nuove visioni su una storia complessa, come quella coloniale: quando si inseriscono in un percorso espositivo opere del passato per descrivere un dibattito contemporaneo, queste vengono inevitabilmente lette sotto la luce delle urgenze dell’oggi, che non è detto che siano le stesse che avevano motivato gli artisti all’epoca. Con questo inciso, non si vuole mettere in dubbio la qualità ed il valore teorico della mostra, ma si tratta di un appunto speculativo che credo sia opportuno tenere in mente quando si propone una nuova lettura storica e culturale.
Tornando alla mostra, un altro tema estremamente attuale affrontato dalla mostra è quello della frontiera e per farlo, si lascia ispirare dalla idea di Gloria Anzaldúa per cui, i confini non sono i luoghi della separazione o della differenza, ma quelli della commistione, del molteplice e dell’ibrido, come molteplici e ibridi sono gli spazi che abitiamo nelle nostre città. Condizione che è invece sostanziale nei territori coloniali.
A questo proposito, nei video in mostra di Abdessamad El Montassir, “Al Amakini” (“I luoghi” 2016-2020) e “Galb’Echaouf” (“il cuore e lo sguardo” 2021) si analizza il rapporto tra territorio, memoria e oralità: suono, parole, racconti popolari, così come piante e paesaggi desertici. Le immagini diventano un tableau di quello che spesso rimane impercettibile, rivelando la storia di luoghi e di persone che hanno vissuto o solo attraversato quei paesaggi.
“Après la Fin” è sicuramente una mostra importante nel panorama corrente perché Borja-Villel, come curatore e direttore di istituzioni museali, si distingue come la voce più significativa della sua generazione, ma anche perché cerca di strappare alle dinamiche cannibali del mercato che, azzerano i significati e creano oggetti di consumo, concetti come quelle di frontiera o di opacità, che possono essere d’ispirazione al dibattito contemporaneo che vede il modello neoliberista collassare in favore degli estremismi. Se possiamo condividere questa scelta di posizione, qualche dubbio ci viene riguardo il considerare la dimensione comunitaria e di relazione qualcosa da imparare dal “sud del mondo”: lo stesso curatore, citando nel catalogo Pier Paolo Pasolini come l’autore che rimpiange i modelli culturali e sociali che il neo-liberismo stava distruggendo, li descrive come realtà “del sud”, quando a onore del vero, l’autore friulano si riferiva a una storia che è patrimonio comune dell’Italia intera, e in fondo, dell’Europa in generale. Il senso di comunità, le relazioni (non solo immaginate), non sono una peculiarità delle regioni caraibiche o africane come sembra voler sostenere la mostra: certo, le politiche neo liberiste hanno fortemente modificato questa cultura, ma l’Europa è stata per secoli il continente delle piccole città e delle comunità locali. Inoltre, sul fronte ideologico, non si può dimenticare che il secolo scorso, tra gli anni ’60 e ’70, è stato segnato, particolarmente in Europa, da un dibattito politico, sociale e rivoluzionario che aveva messo duramente in discussione il sistema capitalistico. Se condividiamo l’anti- eurocentrismo che serpeggia nella mostra dovuto al giusto risentimento storico anticoloniale, credo che si possa più considerarsi come il più urgente. Come dimenticare che la vera azione di colonizzazione culturale ed economica, dal dopo guerra in poi, è stata quella degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa e del Sudamerica (senza considerare la forte e massiccia presenza che ha oggi la Cina nel continente africano)? La mostra cerca di ideare prospettive per l’oggi, ma nel suggerire cosa rifiutare del passato, dimentica che lo stato attuale vede l’Europa come un continente confuso e intimorito con un’identità perduta o mai avuta, e gli Stati Uniti come il paese ancora più influente politicamente, in mano a estremismi con mire espansionistiche (persino territoriali): credo che condannare un passato lontano non può far dimenticare gli ultimi ottant’anni di colonizzazione culturale, politica ed economica statunitense che, proprio oggi, ci chiede di pagare un conto che la politica non sembra saper saldare.

Copyright : © Adagp, Paris, 2024 © Centre Pompidou-Metz / Photo Marc Domage / Exposition Après la fin / 2025
Note
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“Après la fin. Cartes pour un autre avenire”, AA.VV., Ed Centre Pompidou Metz, Metz, (F), 2025
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Édouard Glissant, “Poetica della relazione”, trad. Enrica Restori, Quodlibet, Macerata (I), 2002
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“Après la fin. Cartes pour un autre avenire”, AA.VV., Ed Centre Pompidou Metz, Metz, (F), 2025, pag. 14